Trovare una sintesi fra tradizione e innovazione sembra la sfida del secolo dell’agricoltura. La bella notizia è che c’è chi l’ha accolta, questa sfida, e l’ha pure vinta.
Abetone Erbolaio è un’azienda specializzata in frutti di bosco che rientra proprio fra i vincitori. Come suggerisce il nome, si trova ad Abetone e la sua storia ce la racconta Monica Fini, presidente e uno dei soci fondatori.
Natura, tradizioni antiche, tecniche moderne, artigianato, cibo sano. C’è tutto questo dietro alla nascita della vostra azienda.
Assolutamente sì. Quello che sarà Abetone Erbolaio muove i suoi primi passi negli anni 80, da un gruppo di giovani – di cui facevo parte anche io – che aveva un intento preciso: creare un prodotto che derivasse dalle risorse spontanee della natura, e regalarlo a quante più persone possibile.
In altre parole, volevamo ricreare quello che i nostri genitori, nonni e antenati in generale avevano fatto per decenni, quando raccoglievano i frutti del bosco e realizzavano con quelli tanti prodotti fatti in casa. Ma volevamo anche farlo in modo da creare un’attività che quei prodotti potesse condividerli con tante persone. E, soprattutto, volevamo fare tutto questo mantenendo intatta l’artigianalità, e cercando un punto di incontro fra metodi tradizionali e metodi moderni.
Oggi siamo una cooperativa di 30 soci, di cui circa 10 fondatori e gli altri conferitori. E posso dire che abbiamo raggiunto l’obbiettivo!
Che cosa ricavate dai frutti del bosco?
Principalmente facciamo marmellate, succhi di frutta, bibite, liquori, sciroppi, frutta sciroppata, essiccati per tisane, salse per carni. Tramite i nostri soci esterni abbiamo anche legumi, farine, miele, funghi sott’olio.
Rivendiamo al dettaglio tramite il nostro punto vendita, che è qui accanto ai nostri laboratori. Oppure su internet, tramite il nostro e-commerce e altre piattaforme.
Anche all’ingrosso, ma non attraverso la grande distribuzione. Preferiamo negozi, gastronomie o agriturismi. Ora stiamo meditando di portare i nostri prodotti anche in qualche mercatino.
È proprio nei vostri metodi di produzione che si vede l’unione fra tradizioni antiche e tecniche moderne.
Esattamente. Tanto per cominciare, cerchiamo il più possibile di fare affidamento sui frutti selvatici, anche se i cambiamenti del clima ci hanno costretto nel tempo a coltivarne sempre di più.
Non utilizziamo grandi macchinari in laboratorio, gli stretti indispensabili. Quello che si può fare a mano preferiamo farlo a mano. Per esempio, quando si tratta di spremere i frutti, il più delle volte lo facciamo semplicemente stratificandoli uno sopra l’altro, non con il torchio: in questo modo nella marmellata ritroviamo una parte del succo, che contribuisce al suo sapore.
Vogliamo usare materie prime che siano naturali, quindi niente conservanti, niente coloranti, e neanche pectina nelle marmellate. Ovviamente anche la pectina può essere naturale, ma maschera il gusto, e permette di ottenere la stessa quantità di confettura usando meno frutta. Invece a noi piace che sia soprattutto frutta e che la marmellata esca come natura vuole: a volte liquida, a volte densa, a volte tanto gelatinosa che sembra ci sia un gelificante aggiunto.
Per far conservare meglio dei prodotti come le marmellate, invece di aggiungere zucchero usiamo la pastorizzazione. In altre parole, riscaldiamo in acqua a 80°-100°C i barattoli già sigillati con la marmellata dentro. Senza aprirla, si conserva anche per 3 anni.
Cerchiamo anche di essere circolari. Per esempio, il succo che esce dalla spremitura dei frutti lo utilizziamo per fare alcune delle nostre bevande. Oppure, i semi che rimangono da frutti come i lamponi li trasformiamo in mangime, che poi destiniamo agli animali da allevamento di aziende che sono nostre socie.
Infine, usiamo degli accorgimenti che fanno parte di quella che oggi viene chiamata “biodinamica”. I nostri anziani ci avevano tramandato tanti consigli sulle fasi della Luna, ma all’inizio non ne abbiamo tenuto di conto. E infatti ne abbiamo pagato il prezzo: i liquori venivano fuori con colori strani, pessimi odori, o addirittura con del sedimento sul fondo; oppure le castagne sciroppate fermentavano. A quel punto abbiamo deciso di seguire quei consigli e da allora non abbiamo più smesso di farlo: con le giuste fasi lunari quegli inconvenienti non si sono più presentati e la qualità dei nostri prodotti è migliorata.
Hai accennato a qualche problema causato dal clima. Voi che vivete e lavorate in montagna cosa avete osservato?
Abbiamo visto tanti cambiamenti in pochi anni. Erbe spontanee in quantità più ridotte, per esempio. La quota a cui crescono alcune piante che è salita. O la produzione di alcuni frutti che è diminuita.
Un caso per tutti è quello dei mirtilli. Crescono a quote sempre più alte, ma questo vuol dire che il loro spazio vitale si riduce. E se in inverno manca la neve, poi arrivano fioriture anticipate e in primavera seguono delle gelate, le piante non producono frutti.
Ma non ci siamo arresi. Come ho detto, abbiamo risposto a tutto questo iniziando a coltivare alcuni frutti.
Anche voi fate parte della rete “Dalla Nostra Terra” creata dal Podere di Monaverde. Cosa vi ha motivato a entrare in questo progetto e cosa ne direste oggi?
L’idea ci è piaciuta tantissimo fin dalla prima volta in cui ce l’hanno proposta. Non solo per un discorso economico, ma anche perché si trattava di costruire qualcosa insieme a persone che avevano la nostra stessa visione delle cose, di “fare rete” con loro, appunto. Ne facciamo parte da 10 anni, ormai, e posso confermare che ha superato le nostre aspettative.
Da un lato abbiamo visto crescere le nostre vendite. Da un altro lato, abbiamo scoperto di poterci aiutare a vicenda in modi insospettabili: per fare un esempio, a fine estate, a volte, il Podere porta da noi pomodori verdi che ormai non maturano più e noi li trasformiamo in confetture. E poi la nostra clientela è cresciuta, e questo ha significato una cosa molto bella: un maggior contatto diretto con le persone, e quindi una maggiore possibilità di trasmettere faccia a faccia, toccando con mano, i nostri valori e i prodotti che ne derivano.
Di Enrico Becchi
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